Convegno del Comitato italo-austriaco
del Notariato Kötschach-Mauthen (Austria)
22 / 23 Ottobre 2010
Dr. Mendola
PREMESSA
Il tema che ci proponiamo di sviluppare, in chiave comparatistica e quindi attraverso il raffronto tra i diversi ordinamenti giuridici, si definisce in termini di risposta alla seguente domanda: posta l’esistenza di una data società, cosa accade nel caso di morte di un socio ? Più precisamente l’intento è quello di osservare quali conseguenze siano collegate dalla legge all’evento morte, e quale ambito sia riconosciuto alla autonomia negoziale per derogare alle disposizioni di legge, o per integrarle, ed in genere per adattarle agli interessi specifici e concreti dei soci. La risposta dovrà necessariamente articolarsi e differenziarsi con riferimento ai diversi tipi di società che l’ordinamento giuridico conosce, e che nel sistema italiano possono ordinarsi in due gruppi: – quello composto dalla società semplice, dalla società in nome collettivo e dalla società in accomandita semplice, caratterizzate da autonomia patrimoniale imperfetta, cui corrisponde la responsabilità personale illimitata dei soci per le obbligazioni sociali (salvo che per gli accomnandanti nell’accomandita semplice), e dalla prevalenza di un elemento fiduciario personale, e che per questo sono genericamente definite società di persone; – quello composto dalla società per azioni, dalla società in accomandita per azioni e dalla società a responsabilità limitata, caratterizzate da autonomia patrimoniale perfetta, cui corrisponde la responsabilità limitata dei soci per le obbligazioni sociali, e dalla prevalenza dell’elemento economico, e che per questo vengono genericamente definite società di capitali.
SOCIETA’ DI PERSONE
1. Le disposizioni di legge
1.1 – La norma di riferimento è l’art. 2284 del codice civile, dettato in tema di società semplice, ma espressamente applicabile anche alle società in nome collettivo ed alle società in accomandita semplice in virtù del richiamo operato dagli artt. 2293 e 2315; tenendo conto però che per le società in accomandita semplice l’art. 2322 detta una regola specifica relativamente ai soli soci accomandanti. Essa dispone che in caso di morte di un socio gli altri debbano liquidare la quota agli eredi (o legatari), avendo però facoltà di scegliere in alternativa: – lo scioglimento della società; – la continuazione della società con gli eredi (o legatari), se questi vi acconsentano. Tale disciplina è coerente con la prevalenza in questi tipi sociali dell’elemento fiduciario personale, poichè consente l’ingresso in società di altre persone in sostituzione del defunto solo come effetto di un apposito accordo negoziale con i soci superstiti. Questi ultimi possono invece preferire la liquidazione della quota del defunto, ovvero lo scioglimento della società, evidentemente ritenendo in questo ultimo caso che la partecipazione del defunto fosse essenziale per la sua stessa esistenza, oppure considerando incompatibile con la prosecuzione dell’attività l’esborso economico necessario per la liquidazione della quota.
1.2 – La scelta dei soci superstiti deve avvenire all’unanimità. Qualora essa manchi, per dissenso anche di un solo superstite, la necessaria conseguenza della morte del socio resta quella della liquidazione della quota agli eredi ( o legatari), che l’art. 2284 pone come regola, e rispetto alla quale lo scioglimento della società o la continuazione con gli eredi (o legatari) si configurano come eccezioni alternative. La legge non prevede espressamente alcun termine per l’esercizio della scelta da parte dei superstiti, ma è opinione condivisa che esso possa corrispondere ai sei mesi successivi alla morte del socio, e cioè al termine ultimo previsto dall’art. 2289 cod. civ. per la liquidazione della quota, ed oltre il quale la società sarebbe da considerare in mora nei confronti degli aventi diritto alla liquidazione. La legge non prevede espressamente nemmeno una particolare forma per la manifestazione della volontà dei soci superstiti, che del resto andrà a concretizzarsi necessariamente o nella liquidazione della quota o nello scioglimento della società o nell’accordo di continuazione, ponendosi quindi semmai il problema della forma di questi atti, come si vedrà più avanti. Si può qui comunque anticipare che ad una teorica assoluta libertà di forma si contrappone la forma vincolata prevista ai fini della iscrizione nel Registro Imprese delle modifiche societarie.
1.3 La liquidazione della quota del defunto ai suoi eredi (o legatari) è dunque la conseguenza di regola determinata dalla morte di un socio. Essa è disciplinata dall’art. 2289 del codice civile, dettato in tema di società semplice con riferimento a tutte le ipotesi di scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio ed applicabile anche alle s.n.c. ed alle s.a.s., e consiste nella corresponsione agli eredi (o legatari) di una somma di denaro “che rappresenti il valore della quota”. Tale valore dovrà derivare dalla “situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento”, e quindi in questo caso nel giorno dell’avvenuto decesso. Concorrono quindi a determinare il valore della quota, e quindi l’ammontare della cifra da corrispondere, tutti gli elementi del patrimonio sociale che siano suscettibili di una valutazione economica, sia in attivo che in passivo, compreso anche l’avviamento, inteso come concreta attitudine produttiva, e riferito alla dinamica delle attività sociali, pertanto anche attraverso giudizi presuntivi degli esercizi futuri in rapporto a quelli passati. Come espressamente precisato dallo stesso art. 2289, deve tenersi conto anche delle operazioni in corso al momento del decesso. Dato il carattere concreto ed attuale della valutazione richiesta, non sarà possibile rifarsi all’ultimo bilancio approvato, o a situazioni patrimoniali comunque preesistenti, ma sarà necessario operare una valutazione specifica sulla effettiva consistenza patrimoniale della società nel dato momento. Naturalmente è possibile che il patrimonio sociale al momento del decesso non abbia alcun valore attivo, ed in tal caso non solo non è dovuta alcuna somma agli eredi (o legatari) del defunto, ma questi, ai sensi dell’art. 2290, sono responsabili nei confronti dei terzi delle obbligazioni sociali fino al giorno del decesso (fermo il limite della responsabilità del socio accomandante nelle s.a.s, e quindi anche dei suoi eredi o legatari). Come già in precedenza ricordato, il termine previsto per la liquidazione della quota è di sei mesi dal giorno del decesso (art. 2289 ultimo comma), salva la possibilità di convenire con gli eredi (o legatari) del defunto un termine diverso. Seppure non sia espressamente affermato, si evince in modo chiaro dal complesso delle disposizioni sin qui richiamate che l’obbligo della liquidazione della quota incombe direttamente sulla società, e solo indirettamente sui soci.
1.4 Lo scioglimento della società, conseguente come detto ad una unanime decisione in tal senso dei soci superstiti, implica l’attivazione delle procedure previste per la liquidazione del patrimonio sociale, sia in generale (artt. 2272 e seguenti), sia in particolare per s.n.c. (art. 2308 e ss.) e s.a.s. (artt. 2323/2324). Le conseguenze possono essere per gli eredi (o legatari) sensibilmente diverse rispetto alla liquidazione della sola quota del defunto, giacchè in questo caso non si tratta di attribuire un valore virtuale alla singola quota, ma di convertire materialmente in denaro le poste attive del patrimonio sociale e di distribuire il ricavato in proporzione alle rispettive quote. Inoltre tale distribuzione potrà avvenire solo quando i liquidatori nominati dai soci avranno concluso le attività di liquidazione, senza che operi il termine semestrale previsto per la liquidazione della sola quota del defunto ai sensi del citato art. 2289 ultimo comma.
1.5 L’accordo di continuazione è evidentemente il negozio giuridico concluso tra i soci superstiti e gli eredi (o legatari) del socio defunto, e che ha come effetto l’acquisto da parte di questi ultimi della qualità di soci. Tale acquisto pertanto, secondo l’opinione prevalente, non avviene iure successionis ma appunto per atto inter vivos, e la qualità di erede (o di legatario) ne costituisce solo il presupposto.
Si ricordi che l’accordo di continuazione richiede necessariamente la partecipazione di tutti i soci superstiti, giacchè in caso contrario non vi sarebbe l’unanimità richiesta per derogare alla regola della liquidazione della quota. Esso invece non richiede la partecipazione di tutti gli eredi (o legatari), qualora siano più di uno, potendosi certamente configurare un accordo raggiunto solo con alcuni di essi, con conseguente obbligo di liquidare agli altrila parte di quota corrispondente ai loro diritti successori. Sempre con riferimento alla ipotesi che gli eredi (o legatari) con i quali si conclude l’accordo siano più di uno, l’opinione prevalente, in assenza di una espressa disposizione di legge, è nel senso di considerare che essi non divengano comproprietari della quota del defunto (eventualmente sottratta del valore liquidato a coloro con i quali l’accordo non si è raggiunto), ma titolari ciascuno di una propria singola quota, attribuendosi in tal modo all’accordo di continuazione, nel caso considerato, un effetto necessariamente divisionale. Ciò proprio partendo dalla considerazione che l’acquisto della qualità di socio non consegue alla qualità di erede (o legatario) ma è l’effetto del negozio inter vivos posto in essere.
Salva naturalmente la possibilità che l’accordo stesso preveda la contitolarità della quota, il che è perfettamente coerente con le medesime argomentazioni. La legge non prevede per l’accordo di continuazione alcuna forma particolare, e, salvi gli intuibili problemi di prova, si ammette che esso possa anche risultare da fatti concludenti (ad es. la semplice partecipazione degli eredi alle attività sociali, con l’evidente consenso dei superstiti). Tuttavia occorre considerare, per le s.n.c. e le s.a.s., l’obbligo di iscrizione delle modifiche nel Registro Imprese, e la necessità a tal fine della scrittura privata autenticata come forma minima obbligatoria. Di norma pertanto, sarà necessario un atto notarile, da iscrivere al Registro Imprese, nel quale far constare la morte del socio, e che conterrà l’accordo di continuazione e le conseguenti modifiche dei patti sociali.
1.6 Esistono in dottrina posizioni diverse rispetto alla possibilità di succedere non solo nella qualità di socio, ma anche in quella di amministratore. Secondo l’opinione maggiormente condivisa, occorre distinguere fra due ipotesi: – qualora la carica di amministratore non sia l’effetto di nomina specifica ma consegua per effetto di legge alla qualità di socio, si ritiene che l’acquisto della qualità di socio comporti automaticamente, e per le stesse ragioni, anche l’acquisto della qualità di amministratore; – qualora invece vi sia stata specifica nomina, si ritiene, in applicazione delle norme sul mandato, che gli effetti della nomina cessino in conseguenza della morte del mandatario, e che sia necessario procedere a nuova nomina.
1.7 L’art. 2322 del codice civile, dettato in materia di società in accomandita semplice, prevede una regola diversa da quella generale di cui all’art. 2284. Esso stabilisce infatti che la quota di partecipazione del socio accomandante è trasmissibile per causa di morte, e quindi che in caso di morte del socio accomandante i suoi eredi (o legatari) acquistano automaticamente la qualità di socio. Questa diversa scelta deriva dalla particolare natura del socio accomandante, che risponde delle obbligazioni sociali solo limitatamente alla quota conferita, e che per questo non può amministrare la società; e rispetto al quale dunque l’elemento fiduciario personale si pone in modo molto più attenuato. Secondo l’opinione prevalente, trattandosi in questo caso di un acquisto della quota che avviene iure hereditatis,ed in assenza di una norma che preveda la divisibilità, gli eredi (o legatari), se più di uno, succederanno in comunione, e dovranno nominare un rappresentante comune.
2. Le possibili deroghe contrattuali
2.1 Nell’ambito della autonomia contrattuale riconosciuta in via generale dall’art. 1322 del codice civile, le parti del contratto di società possono porre regole diverse da quelle previste dalla legge e sin qui esaminate, con il limite della eventuale inderogabilità di alcune di esse. Si tratta peraltro di materia che in linea di massima non coinvolge diritti di terzi, e che quindi può ampiamente rientrare nella disponibilità negoziale delle parti. E non a caso evidentemente lo stesso art. 2284 fa precedere la enunciazione delle disposizioni di legge dall’incipit “Salvo diversa disposizione del contratto sociale…” Per chiarezza di esposizione, è possibile distinguere fra clausole contrattuali che integrano la disciplina legale per ciò che non è stato espressamente disciplinato; e clausole contrattuali che invece derogano alla disciplina legale, operando una scelta netta e vincolante tra le possibili ipotesi.
2.2 Le parti infatti possono innanzitutto dare per presupposta la disciplina di legge, e limitarsi ad introdurre delle regole contrattuali integrative. Richiamato quanto sopra esposto, si possono ipotizzare, in via esemplificativa e non necessariamente esaustiva: – clausole contrattuali che prevedano espressamente per i soci superstiti un termine entro il quale operare la scelta tra liquidazione, scioglimento o continuazione; nell’ambito dei sei mesi previsti per la liquidazione, o anche oltre, se contemporaneamente il contratto preveda, in deroga all’art. 2289, un termine superiore ai sei mesi; – clausole contrattuali che impongano un vincolo di forma per l’accordo di continuazione; – clausole contrattuali che nell’ipotesi di pluralità di eredi (o legatari) stabiliscano il permanere della unicità della quota, con necessaria nomina di un rappresentante comune; ovvero il necessario frazionamento della quota stessa, eliminando così ogni possibile dubbio interpretativo sulla disciplina di legge.
2.3 La deroga contrattuale alla disciplina di legge si manifesta però soprattutto attraverso l’inserimento di clausole che fanno derivare dalla morte del socio delle conseguenze specifiche e precise, escludendo qualsiasi possibile scelta alternativa, ovvero restringendo la facoltà di scelta. Vengono ammesse e definite clausole di scioglimento quelle clausole che prevedono come effetto automatico della morte di un socio lo scioglimento della società, con la conseguenza che gli eredi (o legatari) non avranno diritto alla liquidazione della quota del defunto, mentre avranno diritto a partecipare alla liquidazione del patrimonio sociale. Vengono poi ammesse e definite clausole di consolidazione quelle clausole che prevedono l’acquisizione della quota del defunto in capo ai soci superstiti, e l’obbligo di questi ultimi di liquidarne il valore agli eredi (o legatari).
Appartengono infine alla prassi contrattuale le cosiddette clausole di continuazione, che cercano di ottenere appunto la continuazione del rapporto sociale tra i superstiti e gli eredi (o legatari) del defunto, e che possono ulteriormente configurarsi in modi diversi: – si parla di clausole di continuazione facoltativa, quando il contratto sociale vincola alla continuazione i soci superstiti, ma lascia agli eredi (o legatari) del defunto la facoltà di scegliere la liquidazione della quota; – si parla di clausole di continuazione automatica, quando il contratto sociale prevede l’acquisto automatico della qualità di socio in capo agli eredi (o legatari) del defunto, per effetto inevitabile della accettazione della eredità (o del legato). Le clausole di continuazione facoltativa sono senz’altro ammesse, e non solo eliminano la posizione di forza dei soci superstiti prevista dalla disciplina legale, ma addirittura la rovesciano, introducendo per i soci superstiti un vincolo, a fronte della libertà attribuita agli eredi (o legatari). Esse quindi mirano a soddisfare l’interesse personale del socio a che i propri successori possano proseguire nella società, senza veti da parte dei superstiti, e salva comunque una loro diversa volontà; interesse ritenuto evidentemente prevalente rispetto a quello dei superstiti ad esercitare un controllo sui nuovi ingressi nella compagine sociale.
Le clausole di continuazione automatica sono invece di dubbia ammissibilità, poichè è apparso difficile conciliare l’automaticità dell’acquisto e la conseguente responsabilità limitata con la disciplina della accettazione di eredità con beneficio di inventario (che limita la responsabilità dell’erede rispetto alle passività ereditarie); e con la disciplina di tutela dei minori e degli incapaci (che prevede obbligatoriamente delle autorizzazioni per lo svolgimento di attività di impresa, ed in genere per gli atti di straordinaria amministrazione). Si consideri inoltre che, sotto l’aspetto squisitamente pratico, tali clausole appaiono comunque poco utili, perchè poco opportuno appare costringere in società chi non ha interesse a parteciparvi, e potrebbe comunque invocare giuste cause di recesso, oltre a introdurre comunque elementi di possibile perturbazione nella vita della società. La prassi conosce anche clausole che potrebbero definirsi “miste”, che prevedono la continuazione facoltativa, nei termini sopra delineati, ma solo per eredi (o legatari) legati al defunto da particolari relazioni soggettive (ad es. coniuge e parenti in linea retta, o coniuge e figli, o solo figli); mentre per altri eredi (o legatari) lasciano vigente la regola di legge, o prevedono altra deroga di tipo diverso.
2.4 La regola della libera trasmissibilità mortis causa posta dall’art. 2322 cod. civ. per la quota del socio accomandante è sicuramente derogabile dal contratto sociale, che potrà integrarla (ad es. prevedendo il frazionamento della quota in luogo della contitolarità che sembra dover discendere dalla norma così come è posta), o prevedere il suo opposto (quindi la liquidazione della quota, con o senza possibilità per i soci superstiti di addivenire ad un accordo di continuazione), ovvero contenere una clausola di consolidazione, nei termini sopra esposti.
2.5 La derogabilità della disciplina di legge, oltre ad incontrare i limiti posti in generale dall’ordinamento alla autonomia contrattuale (ordine pubblico, buon costume, liceità e meritevolezza degli interessi), incontra limiti specifici attinenti alla materia, che in quanto ricavabili in via interpretativa, non sono individuabili in modo certo ed oggettivo. Sicuramente illecita sarebbe comunque la clausola che escludesse per gli eredi (o legatari) del socio defunto non solo l’acquisto della qualità di socio, ma anche qualunque diritto economico sulla quota; e ciò in quanto apertamente in contrasto con l’art. 458 del codice civile, nella parte in cui dispone che “è nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione” (divieto dei patti successori).
SOCIETA’ DI CAPITALI
1. Le disposizioni di legge
1.1 In generale, la legge regola i trasferimenti mortis causa nelle società di capitali secondo un criterio esattamente opposto a quello utilizzato per le società di persone, coerente peraltro con la prevalenza dell’elemento economico rispetto a quello fiduciario personale, che rappresenta la distinzione principale fra queste categorie di tipi sociali. Ed infatti la regola principale è quella della libera trasferibilità, anche se occorre poi distinguere fra società per azioni (alla quale sul punto è del tutto equiparata la società in accomandita per azioni), e società a responsabilità limitata, anche in funzione delle modifiche che sono state introdotte con la riforma delle società di capitali entrata in vigore nel 2004 (D.Lgs. 6/2003).
1.2 In tema di società per azioni è necessario naturalmente partire dal presupposto che le partecipazioni assumono la forma di titoli (le azioni appunto), destinati per le loro caratteristiche proprio a permettere la più rapida circolazione possibile. E’ così, pur senza fare riferimento a tutta la disciplina specifica in materia di società quotate in borsa, è previsto che le azioni non siano nominative, ma al portatore, accentuandosi in tal modo il loro carattere di titolo circolante (art. 2354 cod. civ.). Le norme che disciplinano la circolazione delle azioni non stanno tutte nel codice civile, ma sono contenute anche in leggi speciali, ed in particolare all’art. 7 del Regio Decreto n. 239/1942, che regola appunto i trasferimenti mortis causa. Esso stabilisce che “Nel caso di morte dell’azionista, la società emittente, se non vi è opposizione, addiviene alla dichiarazione del cambiamento di proprietà sui titoli azionari e nel libro dei soci, su presentazione del certificato di morte, di copia del testamento se esista e di un atto di notorietà giudiziale o notarile, attestante la qualità di erede o di legatario dei titoli. La società trattiene detti documenti. Resta fermo l’obbligo della società di richiedere la prova che è stata presentata, se del caso, la denuncia di successione e pagata la relativa imposta.” Ferme dunque talune esigenze di prova e l’incombenza fiscale di dimostrare il pagamento delle imposte connesse alla successione mortis causa, la norma in esame presuppone la assoluta trasmissibilità a causa di morte delle azioni. La stessa norma si considera applicabile anche nell’ipotesi, ora ampiamente riconosciuta e regolata, anche a seguito della riforma del 2004, che non vi sia materiale emissione del titolo azionario, e che quindi le azioni siano sostanzialmente dematerializzate. In questo caso, la partecipazione nella s.p.a. finisce per configurarsi in modo simile a quella in s.r.l.
1.3 In tema di società a responsabilità limitata, l’art. 2469 del codice civile, pone il medesimo principio della libera trasferibilità della quota, sia per atto tra vivi che per causa di morte. Il successivo art. 2470, nel disciplinare efficacia e pubblicità dei trasferimenti, richiama per quelli mortis causa le disposizioni dettate in tema di s.p.a., seppure si debba tener conto della recente soppressione del libro soci, almeno come libro obbligatorio. Ne deriva che gli eredi o legatari del socio defunto hanno diritto di legittimarsi come soci nei confronti della società, con il solo onere di provare la loro qualità di successori mortis causa e di curare la relativa pubblicità presso il Registro Imprese (ora non più necessariamente seguita dalla annotazione nel libro soci, a meno che esso non sia volontariamente previsto nello statuto).
2. Le possibili deroghe contrattuali
2.1 Poichè il principio posto dalla legge è quello della libera trasmissibilità sia per le s.p.a (e quindi per le s.a.p.a.) che per le s.r.l., e poichè le norme dettate sono sostanzialmente simili, i due tipi sociali risultano accomunati anche sotto l’aspetto della derogabilità della disciplina legale, salve alcune residue differenze. Come deroghe alla libera trasmissibilità, si possono configurare le ipotesi di limite che già si sono esaminate per le società di persone, con la precisazione che rispetto alla particolare natura della s.p.a. e delle azioni, e stante il tenore letterale dell’art. 2355 bis, di cui appresso, rispetto a quello dell’art. 2469, di cui pure in appresso, non paiono ammissibili clausole che escludano in tutto in parte la trasferibilità delle azioni riconoscendo ai successori solo il diritto alla liquidazione della quota. Queste limitazioni possono valere dunque solo per le s.r.l., mentre per entrambe è possibile sottoporre il trasferimento mortis causa a particolari condizioni. In particolare, viene in rilievo l’ipotesi che il trasferimento mortis causa venga subordinato ad una manifestazione di gradimento rispetto alle persone dei successori, quando tale gradimento corrisponda ad una valutazione assolutamente discrezionale e non al ricorrere di determinate circostanze o qualità. Resta naturalmente anche qui il limite posto dal divieto di patti successori ex art. 458 cod. civ., che rende inammissibili le clausole che escludano non solo l’acquisto della qualità di socio ma anche ogni diritto economico sul valore della quota.
2.2 Il terzo comma dell’art. 2355 bis, dettato in tema di s.p.a., prevede espressamente la possibilità che lo statuto sottoponga a particolari condizioni il trasferimento a causa di morte delle azioni, ma richiama quanto disposto dal secondo comma (riferito ai trasferimenti inter vivos), con l’effetto di contenere la derogabilità in limiti più ristretti di quelli previsti per i trasferimenti tra vivi. Il secondo comma infatti prende in esame la specifica ipotesi che il trasferimento (inter vivos) sia subordinato al mero gradimento di organi sociali o di altri soci, e considera inefficace la clausola se essa non preveda anche un obbligo di acquisto delle azioni da parte della società (fermi i limiti posti dal successivo art. 2357) o degli altri soci; ovvero il diritto di recesso del socio che intenderebbe alienare. Mentre il terzo comma prevede le medesime conseguenze, estendendole a tutte le clausole che pongano particolari condizioni per il trasferimento mortis causa, e non soltanto alla ipotesi del mero gradimento. La legge vuole dunque che in ogni caso (e non solo nel caso del mero gradimento) agli eredi (o legatari) del socio defunto sia concessa una possibilità di uscita, e che pertanto essi non possano restare prigionieri dei propri titoli. Il che si spiega anche rispetto alla valenza economica di investimento, che deve presupporre necessariamente la possibilità di disinvestimento. La eventuale inefficacia della clausola, che preveda il necessario assenso degli altri soci senza prevedere anche i correttivi richiesti, viene comunque meno se in concreto l’assenso venga concesso.
2.3 L’art. 2469 del codice civile, dettato in tema di s.r.l., utilizza il meccanismo del recesso per realizzare un bilanciamento fra gli interessi della società e gli interessi del singolo socio, e così come già l’art. 2355 bis, mentre ne appronta i correttivi, definisce a contrario l’ambito delle possibili deroghe. E’ considerato possibile infatti che lo statuto preveda la assoluta intrasmissibilità della quota (cosa che l’art. 2355 bis non prevede), o che il trasferimento sia subordinato al mero gradimento non solo di organi sociali o di altri soci (qui l’art. 2355 bis si fermava), ma anche di terzi (il che implica necessariamente la predisposizione di meccanismi per la individuazione del terzo, o la sua diretta individuazione, non essendo considerata ammissibile una clausola eccessivamente indeterminata sul punto). Ma tutte le volte che sul trasferimento della quota possa essere esercitato un potere discrezionale, la norma assicura agli eredi (o legatari) il diritto di recesso.
E’ stato correttamente osservato che si tratta di una imprecisione terminologica, e forse anche concettuale: esercitandosi tale diritto essi in realtà non divengono soci, e pertanto non si ha tecnicamente recesso, ma liquidazione della quota a soggetti estranei, proprio perchè si sceglie che essi non divengano eredi. E’ stato inoltre osservato, ed altrettanto correttamente, che questo cosiddetto recesso, stando al tenore letterale della norma, potrebbe essere esercitato già solo per la presenza nello statuto della clausola di mero gradimento. Mentre appare più razionale interpretare la norma nel senso che sia necessario anche l’effettivo diniego del gradimento. Sempre l’art. 2469, riconnette il diritto degli eredi (o legatari) al cosiddetto recesso anche all’ipotesi che lo statuto ponga “condizioni e limiti che nel caso concreto impediscono il trasferimento a causa di morte”; attribuendo così rilevanza anche alle dinamiche personali e familiari dei soci, nella loro variabilità storica.
2.4 Per le s.p.a. l’art. 2437 comma secondo prevede quale specifica causa di recesso “la introduzione o rimozione di vincoli alla circolazione di titoli azionari”, e ciò induce a ritenere che la decisione di introdurre o rimuovere (o modificare) tali vincoli possa essere assunta a maggioranza, salvo appunto il recesso dei dissenzienti. L’assenza di una analoga disposizione per le s.r.l. induce invece alcuni a ritenere che la introduzione o rimozione (o modifica) di vincoli alla circolazione della quota debba necessariamente essere assunta all’unanimità; mentre altri preferiscono applicare analogicamente il citato art. 2437 comma secondo, per giungere alla medesima conclusione (maggioranza, salvo recesso).
2.5 Quanto alla liquidazione della quota in favore degli eredi (o legatari) che non continuano nella società (perchè lo statuto deroga alla regola della trasmissibilità, o perchè comunque, pur avendo diritto ad entrare in società, sia intervenuto un successivo accordo diverso con i soci superstiti), la legge non prevede regole specifiche, nè in tema di s.p.a., nè in tema di s.r.l. E’ possibile in entrambi i casi fare riferimento in via estensiva alle norme dettate per la liquidazione della quota in caso di recesso, e quindi all’art. 2437 ter in tema di s.p.a. ed all’art. 2473 in tema di s.r.l. – La disciplina dettata in tema di s.p.a. è più ampia ed articolata, ed attribuisce all’organo amministrativo il compito di determinare il valore delle azioni, sentito il parere dell’organo di controllo contabile, “tenuto conto della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali, nonchè dell’eventuale valore di mercato delle azioni”. Ne deriva che senza dubbio l’avviamento, anche se consista in una posta attiva virtuale ed in parte futura, deve essere una componente della valutazione (cosa della quale prima della riforma si dubitava). La legge non chiarisce a quale data debba farsi riferimento per la determinazione del valore, ma prevede implicitamente una apposita assemblea e stabilisce che gli aventi diritto debbano avere conoscenza della determinazione almeno quindici giorni prima. Si può quindi presumere da un lato che la data di riferimento per la stima debba essere quanto più possibile vicina al quindicesimo giorno precedente l’assemblea, e dall’altro che essa non sia così lontana nel tempo da privare di attualità i presupposti della stima stessa.
Tuttavia, trattandosi qui di interpretare la norma rispetto alla liquidazione nei confronti degli eredi (o legatari) di un socio defunto, la data di riferimento non potrà che essere quella del decesso. Per le società quotate in borsa è previsto un criterio più oggettivo, dovendosi fare riferimento alla media aritmetica dei prezzi di chiusura nei sei mesi precedenti la pubblicazione o la ricezione dell’avviso di convocazione dell’assemblea. L’art. 2437 quater del codice civile detta norme sul procedimento di liquidazione: le azioni da liquidare vengono prima offerte in opzione agli altri soci in proporzione al numero delle azioni possedute, assegnando un termine non inferiore a 30 giorni per l’esercizio del diritto di opzione; coloro che hanno esercitato il diritto di opzione hanno diritto di prelazione per l’acquisto delle azioni che siano rimaste non optate; le azioni non acquistate dai soci possono essere collocate presso terzi; le azioni non acquistate nè da soci nè da terzi dovranno essere rimborsate mediante acquisto da parte della società, anche in deroga ai limiti ordinariamente previsti, attingendo ad utili e riserve disponibili; se non vi sono utili o riserve disponibili dovrà essere deliberata la riduzione del capitale sociale, a meno che non si scelga di mettere in liquidazione la società. Si rileva dunque come l’utilizzazione di risorse della società sia prevista solo come ultima soluzione, nella consapevolezza che essa può determinare conseguenze pesanti per il patrimonio sociale e per la vita stessa della società. – In tema di s.r.l., le legge si limita ad affermare che il valore della quota deve essere proporzionale al patrimonio sociale, e che quest’ultimo deve essere determinato in base al suo valore di mercato. Al di là delle diverse espressioni usate, non pare che vi siano ragioni per giungere a conclusioni diverse rispetto alla s.p.a., in particolare in merito al doveroso computo dell’avviamento.
Lo stesso vale per la data di riferimento della stima, che è testualmente riferita alla data di dichiarazione del recesso, ma che per il fine qui rilevante corrisponderà senz’altro alla data del decesso del socio. Anche per le s.r.l. sono previste, dallo stesso art. 2473 cod. civ., forme di soddisfazione degli aventi diritto alla liquidazione alternative rispetto al pagamento con denaro sociale, che si ritiene debbano derivare necessariamente da decisione unanime dei soci superstiti (pur non essendo ciò espressamente previsto): acquisto della quota in liquidazione da parte degli altri soci proporzionalmente alle quote già possedute; acquisto della quota medesima da parte di un terzo concordemente individuato dai soci superstiti. Se queste forme alternative non sono praticabili, la società dovrà rimborsare la quota in liquidazione attingendo a riserve disponibili; ed in mancanza di esse, dovrà deliberare la riduzione del capitale sociale, oppure la liquidazione della società. Anche qui il termine di legge per eseguire il pagamento nei confronti degli aventi diritto è di centottanta giorni dal decesso (o meglio dalla sua notizia).
– Per entrambi i tipi sociali, non appare chiaramente definito l’ambito di derogabilità delle norme di legge, seppure per le s.p.a. sia stabilito che lo statuto possa prevedere criteri correttivi delle risultanze di bilancio rispetto ad alcuni elementi dell’attivo. Il raffronto sistematico delle due norme citate consente probabilmente di concludere che tale ambito sia molto ristretto, ed in particolare che non sia possibile introdurre per contratto criteri che abbiano come effetto il peggioramento della posizione dell’avente diritto, sia rispetto al quantum da ricevere sia rispetto alle modalità di erogazione. Tale conclusione si giustifica però rispetto alla funzione delle norme suddette, che sono dettate in materia di recesso, e concorrono quindi a delineare un principio di intangibilità dei diritti del recedente, presente sia nelle s.p.a. che nelle s.r.l. E pertanto non è detto che essa debba necessariamente restare valida anche con riferimento alla diversa ipotesi di liquidazione conseguente alla morte di un socio; anche se di certo sarà più prudente non forzare eccessivamente l’adattamento della norma in funzione della sua interpretazione estensiva. Sul piano squisitamente pratico, poichè è improbabile che possano essere giudicate convenienti per la società clausole statutarie migliorative della posizione di chi debba ricevere la liquidazione della partecipazione, e poichè non vi è sufficiente certezza di poter legittimamente derogare in senso peggiorativo, gli statuti, anche per il prudente intervento del Notaio, finiscono sul punto per uniformarsi alla disciplina di legge, limitandosi semmai a rendere espressamente applicabili alla S.R.L. le norme della S.P.A., e soprattutto a disciplinare espressamente come per il caso di recesso tutte le ipotesi di liquidazione della quota, compresa quella in favore di eredi (o legatari).